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HOST FAMILY & PARTENZA

È sconvolgente quanto il tempo sia un concetto che muta in base alle situazioni, da un momento all'altro, quasi a volerti prendere in giro. "Ehi! Eccomi, sono qui, sono proprio accanto a te!" Mi sembra che sussurri all'orecchio sibillino, salvo poi allontanarsi con un ghigno soddisfatto sulla bocca. "E invece no, non riuscirai a prendermi così facilmente" pare sillabare poi, volubile e dispettoso. È passata esattamente una settimana dal 4 luglio, grande festa negli USA e, come tale, motivo di indimenticabili festeggiamenti. Peccato che dall'altra parte dell'oceano, vi fossi io, triste e sconsolata per il ritardo nel ricevere l'host family. Non so dirvi cosa abbia fatto quel giorno, a parte cazzeggiare (passatemi il francesismo) e tormentarmi perché stavo sprecando del tempo prezioso. So solo che dopo cena ho continuato nella faticosa impresa di smanettare sul cellulare. Erano le 21:50 circa quando un'americana comincia a seguirmi su Instagram. Non era una novità, era successo già due volte quindi non mi sono entusiasmata più di tanto. Ciononostante non ho potuto frenare la curiosità e spulciare il suo profilo. Inutile dire che ho trascorso i seguenti dieci minuti a cercare tra i suoi follower e non se seguisse/fosse seguita da qualcuno della Pan Atlantic Foundation, invano. Avevo riscontrato lo stesso deludente risultato su Facebook quindi la mia speranza era ormai sepolta sotto uno spesso strato di pessimismo, quando un'altra americana (ragazza) mi chiede l'amicizia su Fb. Aveva il suo stesso cognome. A quel punto sono iniziati gli scleri. Non che siano potuti durare molto in realtà. La ragazza mi ha subito scritto, chiedendomi di aggiungerla su Snapchat e contemporaneamente quella che ho poi scoperto essere la madre mi ha contattato su Instagram con un messaggio dolcissimo. Vi allego la foto per chi fosse curioso.

Dopo qualche minuto di battiti del cuore a mille, mi arriva la richiesta di messaggio di un'altra americana, che si è rivelata essere la figlia più grande. Potrebbe essere affrettato e stupido da dire, ma li ho amati sin da subito. Mi hanno colpito per la loro semplicità, la loro tenerezza e la loro eccitazione che equipara(va) la mia. Ma passiamo al concreto, perché andrò in KENTUCKY, più precisamente a Liberty, una cittadina di 2200 abitanti, capoluogo della contea di Casey County.

Frequenterò la Casey County High School, che conta 700 studenti, e molte meno materie e sport tra cui scegliere. È infatti questa l'unica sbavatura del quadro altrimenti perfetto. Essendo una scuola piccola per gli standard americani (ma non per quelli italiani), non offre molti dei corsi che io stupidamente speravo di scegliere. Ma il vero problema non è abbandonare l'idea di prendere "law" o "business" o qualunque altra materia che possa aiutarmi a schiarire le idee in merito al mio futuro. Il vero problema è l'assenza del corso di francese, che io temevo più di qualunque altra cosa. Frequentando un liceo linguistico e peraltro la classe esabac che mi permetterà al termine del quinto anno di prendere il diploma francese, è sempre stato un punto cardine della mia decisione di partire. Tuttavia, ero preparata all'ipotesi che potesse non avvenire e lo spazio per il libro di letteratura francese lo avevo già riservato nel bagaglio.

La scuola comincia il 9 agosto e io partirò nella prima data, ossia il 26 Luglio (addio estate e addio mare). Trascorrerò tre giorni esatti nella Grande Mela per poi riprendere l'aereo e volare a Detroit, dove passerò ben quattro ore. Alle 15:35 la partenza per l'aeroporto di Lexington, con arrivo previsto per le 16:49. Ben diverso e più complicato il discorso per il 26 Luglio: partirò da Brindisi con Ryanair alle 6:20 di mattina (quindi sveglia alle 3:30) per atterrare a Fiumicino alle 7:35, salvo ritardi. Avrò quindi tempi molto stretti per recuperare la valigia, uscire dall'aeroporto, cambiare terminal ed incontrarmi con gli altri ragazzi che partiranno con me. Alle 10:40 il volo per JFK che durerà all'incirca 10 ore. Tenendo perciò conto del fuso orario, metterò piede negli USA alle 14:15 (le 20:15 italiane). "E poi potrai riposarti no?" vi sorgerà spontaneo domandare. Eh, no. Mi aspetteranno tre ore di lunga fila e attesa prima al controllo passaporti, poi al ritiro bagaglio e infine alla dogana. (23:15 italiane - 17:15 statunitensi). Eppure l'unica emozione che mi assale nel mettere nero su bianco tutto questo è eccitazione, adrenalina, voglia di buttarmi nell'ignoto e tanta, tanta volontà di addentarmi in nuove entusiasmanti realtà. Oggi il countdown sta a -15 e l'unica ansia che provo è quella per le valigie. Dovendo volare con Ryanair, dovrò rinunciare a 3 kg per il bagaglio in stiva. E quando l'ho saputo, non ho potuto trattenere un moto di rabbia ed impotenza. Presa dalle emozioni, ho fatto una prova con le valigie e, mettendovi solo i vestiti, ho raggiunto i 20 kg prestabiliti. Inutile aggiungere che in quel momento tutta la rabbia e l'impotenza si siano tramutate in depressione vera e propria. E forse i 40 C di temperatura percepita non aiutavano. Fortunatamente, il pomeriggio sono uscita con un mio amico e il mio umore è nettamente migliorato. Fare la ghost writer ha lenito le mie ferite nonché la solitudine che ho provato la mattina nel fare le valigie da sola. So che è un dolore per mia madre aiutarmi nei vari step e so che io non c'ero per mia sorella quando era lei ad aver bisogno di me, tuttavia rimane sempre la mia famiglia. Quella famiglia che sarebbe tenuta a supportarti sia che tu stia prendendo la tua strada prima del previsto sia che tu decida di non tagliare il cordone ombelicale. E il fatto che loro, proprio i diretti interessati, non se ne rendano conto, nonostante le mie grida di aiuto, è qualcosa che non riesco a digerire. Ma penso che dovrò farmi il callo. Le mie ambizioni e le mie convinzioni sono troppo diverse dal restante della mia famiglia e questo mi etichetta automaticamente come la "strana". Non ho comprensione, non ho appoggio e anche se accade si conta col contagocce. Non ho l'amore che una famiglia dovrebbe dare al proprio figlio. Può sembrare ipocrita da dire, considerato che nonostante i problemi, nonostante i sacrifici e nonostante le remore di carattere psicologico, i miei genitori mi hanno permesso di realizzare questo sogno. Ma talvolta non basta sborsare i soldi e pagare i conti, come direbbe mio padre. Talvolta noi figli vogliamo una mano tesa ad accarezzarci e a guidarci anche da lontano, a sostenerci e a darci pacche sulla spalla anche quando c'è un oceano a separarci. Non avevo mai esternato tanto i miei sentimenti in merito a questa situazione incresciosa e solo ora mi rendo conto di quanto io ne abbia sofferto nei passati otto mesi. Ho contato e soppesato le mie parole mille volte prima di aprire la bocca e dire qualcosa riguardo l'anno all'estero. Ho taciuto altrettante mille volte. Ho sopportato tensioni, silenzi accusatori e minacce non tanto velate. Tante volte mi sono domandata se alla fine ne valesse la pena. Se andare dieci mesi in un altro continente, scoprire una nuova me stessa e diventare finalmente capace di maneggiare una lingua che amo e che può portarmi dove io voglio che mi conduca, valga la pena. E ora posso dire che si, ne vale decisamente la pena. Non avrò l'appoggio che desidero, la carezza di mia madre e il bacio di mio padre, ma avrò un'altra famiglia, un orizzonte culturale da fare invidia e tante nuove possibilità. Quindi un bel fuck you ci sta tutto, che dite? Alessia

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